LECCE (di Italo Aromolo) – Dagli albori della filosofia alla medicina ultra-moderna, l’uomo ha sempre cercato di decifrare l’imperscrutabile collegamento tra mente e corpo: la vexata quaestio dell’interazione fisico-emozioni emerge oggi nella sua versione “pallonara” in uno studio dell’Università di Leeds. I ricercatori hanno monitorato i parametri cardiovascolari di 25 tifosi del Leeds – tra i 20 e i 62 anni – durante tre partite decisive per la promozione del club nella stagione 2018/’19.

È emerso che trasalire per gli eventi di una partita di calcio è salutare come praticare un’attività fisica moderata, e non fa affatto “perdere dieci anni di vita” come da proverbio del quivis de populo. Lo stress cardiovascolare durante i 90 minuti è infatti paragonabile a quello di una camminata veloce, con annessi benefici “allenanti” su cuore e vasi sanguigni. In particolare, gli studiosi hanno rilevato un aumento medio della frequenza cardiaca del 17%, con picchi ai gol della propria squadra (+27%) e degli avversari (+22%). L’ambiente dello stadio è sicuramente più coinvolgente di quello delle mura di casa, tanto che l’incremento della frequenza cardiaca è stato maggiore per i match visti dal vivo rispetto a quelli in televisione.

Anche la pressione del sangue si è mediamente elevata durante i novanta minuti, ma ha richiesto più tempo per tornare alla normalità nel post-match in caso di sconfitta. L’ultimo parametro analizzato è stato il tono dell’umore, quello che va incidere maggiormente nella vita di ogni appassionato colorando d’euforia le giornate o instillando tacche di irritabilità in base al risultato. Le modificazioni dell’umore in senso espansivo per una vittoria si sono esaurite in appena 24 ore, mentre le alterazioni depressive susseguenti ad una sconfitta hanno richiesto più di qualche giorno per normalizzarsi. Tifare quindi fa bene al cuore, ma occhio all’umore

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