LECCE (di Italo Aromolo) – Chiunque sia stato bambino ricorderà uno dei moniti più snervanti ricevuti da mamma in riva al mare: aspettare almeno un paio d’ore prima di fare il bagno. E difficilmente potrà dimenticare quei minuti destinati a non trascorrere mai, con lo stomaco in trepidante attesa del via libera per la corsa verso le onde, mentre ci si chiedeva il perché di quell’imposizione, se avesse un senso. L’impaziente richiesta nascondeva in realtà un dilemma di portata scientifica internazionale.

IL PERCHÉ– Il tanto temuto evento prende il nome di “congestione intestinale”. Congestione significa accumulo, per cui, se un ingorgo di automobili nel traffico causa la congestione stradale, così un insieme di telefoni causa la congestione della rete wi-fi. Nel corpo umano, dopo un pasto, normalmente si ha un accumulo di sangue nell’intestino. In quel intelligente ed equilibrato sistema che è il nostro organismo tutto ha la sua spiegazione: se l’intestino deve lavorare di più per digerire il cibo introdotto, necessita di più “carburante”, ovvero l’ossigeno trasportato dal sangue. L’equilibrio di questo meccanismo può essere spezzato da un fattore esterno, come l’immersione in acqua fredda o l’avida sorsata di una bevanda ghiacciata. Come? Attraverso l’abbassamento della temperatura corporea provocata dai liquidi freddi. Nella gerarchia di allarmi del nostro corpo potremmo dire che la digestione è un codice “verde”, il raffreddamento un codice “rosso”: la priorità va al mantenere costante la temperatura corporea. Quel sangue in più destinato all’intestino viene dirottato altrove (magari ai muscoli, che si attivano per nuotare) per non disperdere calore con i processi digestivi. Tale squilibrio tra sangue richiesto (di più per digerire) e sangue effettivamente apportato (di meno per risparmiare calore) causa le difficoltà digestive che comunemente si definiscono “blocco della digestione” ed esitano in nausea, vomito, dolori e gonfiore addominali.

Ma il vero timore deve essere quello di perdere i sensi e annegare in mezzo al mare. Nello svenimento entra in gioco un altro meccanismo, che si chiama riflesso da immersione (diving reflex): in risposta al contatto con il liquido freddo si ha una attivazione del nervo vago, che controlla il cuore riducendone la frequenza di battito. Questo riflesso è presente in tutti i mammiferi ed è un altro esempio di come la natura nel suo armonioso funzionamento ci viene incontro: serve infatti a preservare l’ossigeno del sangue – dal momento che in un immersione non è possibile respirare quello atmosferico – per resistere sott’acqua il più a lungo possibile. Sostanzialmente il cuore funziona un po’ più lentamente, con l’obiettivo di guadagnare tempo, distribuendo meno ossigeno agli organi: invece di distribuire 100 molecole di ossigeno in un minuto, ne dà 10 al minuto, ma per dieci minuti. Il prezzo da pagare è che ciò può causare una ridotta funzionalità degli organi stessi, tra cui il cervello, portando ad un annebbiamento della vista e capogiri fino allo svenimento, specialmente se una quota di sangue è già sottratta dall’intestino per supportare i processi digestivi in corso.

COSA DICE LA SCIENZA– Quella dell’attesa post-prandiale è un’abitudine tipicamente nostrana, che non trova eguali nei pensieri di madri e medici oltreconfine per apprensione emotiva. Eccessivi noi o irresponsabili gli altri? Il punto-chiave su cui riflettere è la possibile relazione tra il processo digestivo e il riflesso da immersione, ovvero: l’attivazione del riflesso da immersione può, in qualche modo, essere favorita dall’aver mangiato? La scienza non è stata ancora capace di dare risposte chiare  e, anche in ambiti accademici, la risoluzione della vexata quaestio appare lontana. Infatti, non esistono studi scientifici a riguardo: nei database mondiali l’argomento è praticamente misconosciuto e alcune importanti realtà come l’Organizzazione Mondiale della Sanità e l’International Life Saving Federation non menzionano l’immediata immersione dopo un pasto tra i fattori di rischio per annegamento.

Ma il fatto che nessun ricercatore abbia scelto di indagare un’associazione non significa necessariamente che non sia vera. Si tratta di un vuoto di indagini, una zona nebulosa della letteratura scientifica. Per lo stesso motivo, volendo esemplificare, l’assenza di studi scientifici in merito alla correlazione tra lancio di fiammiferi accesi e rischio di incendio non sarebbe una buona attenuante nel processo legale per incendio colposo. Sulla base dell’esperienza, perciò, la maggior parte dei medici e delle istituzioni italiane consiglia di attendere un tempo che varia da 30 minuti fino alle 3 ore, in base al tipo e quantità di pasto. È preferibile consumare cibi leggeri a base di carboidrati (come un panino poco farcito), anziché grassi che richiedono più tempo per essere digeriti. Un eccesso di prudenza, seppur non scientificamente dimostrato, va più che bene: in questa partita, mamme battono scienza 1-0.

ATTENZIONE: Le informazioni contenute in questo articolo sono presentate a solo scopo informativo. Non intendono sostituire il rapporto diretto medico-paziente. Si raccomanda di chiedere il parere del proprio medico riguardo qualsiasi indicazione riportata.

Bibliografia:

I precedenti di “Miti&Salute”:

  1. Celiachia: problema per alcuni, cultura per tutti
  2. Vaccini, vademecum contro le bufale
  3. Immigrati e malattie, il falso allarme tubercolosi
  4. Omeopatia, l’acqua che non disseta
  5. Spinaci=ferro? No, tutta colpa di una virgola
  6. Acqua del rubinetto e calcoli renali: nessun nesso
  7. Tetano: non solo ruggine!
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