LECCE – (di Italo Aromolo) – “Mi alzo alle 5 e mi corico alle 10 di sera. Ho solo sei anni ma sollevo e porto sulla schiena sacchi di 20, 25, anche 50 chili. Resto sotto il sole tutto il giorno, con i piedi nel fango. Zappo, estirpo, sarchio, vango, pianto e raccolgo”. È uno scorcio, tratto dalla sua autobiografia, della commovente storia del brasiliano Adriano Ferreira Pinto: un uomo, prima che un calciatore, che ha vissuto il dramma di un’infanzia difficilissima, in cui la povertà assoluta ha rischiato di tarpare le ali ad ogni speranza, ad ogni desiderio, soppiantato brutalmente dalla necessità di lavorare nei campi e in fabbrica per poter mantenere la propria famiglia.
Nato nella miseria delle favelas di Quinta do Sol, Ferreira Pinto è il secondo di tre fratelli: mamma Julie accudisce severamente i tre figli, mentre papà Josè è un umile contadino, che coltiva con grande dedizione il suo lotto di terreno, piccolo ma poco redditizio. Adriano trascorre i primi anni della sua vita tra le partite di calcio per strada; la palla è un sacco del riso riempito con la carta e le scarpe non esistono: si gioca scalzi, o al massimo con le ciabatte cucite da mamma; per il primo paio di scarpe bisognerà aspettare i 16 anni. A sei anni una notizia che segna indelebilmente la giovinezza di Ferreira Pinto: “Papà è malato, bisogna portare il pane a casa, lascia tutto e vieni ad aiutare nei campi” sono le parole della madre.
Così i pomodori, le zucchine, le melanzane sono la nuova realtà quotidiana di un bambino che solo la domenica può evadere dal duro lavoro per fare l’unica cosa che ama: tirare calci ad un pallone. Tra i pochi risparmi di famiglia e i tanti desideri dei tre bimbi, papà Josè acquista un altro pezzo di campagna: ma la terra è lontana da casa, incolta e piena di erbacce. La situazione peggiora: mancano i soldi per le medicine, fornite comunque da un farmacista, certo che la famiglia le avrebbe ripagate. “Perché la gente, in fondo, è buona – scrive Ferreira Pinto nella sua autobiografia, intitolata “Volevo solo giocare a calcio” e scritta con Pier Domenico Baccalario – e nella povertà basta poco per essere felici”.
Infatti, la gente è buona: al trasferimento in una nuova città, la famiglia Pinto può pagare soltanto due biglietti per l’autobus, così i viaggiatori fanno una colletta e pagano gli altri tre. Ferreira Pinto ha solo 15 anni quando suo papà, aggravatosi per i concimi tossici usati nei campi, gli confessa: “Portami a morire in ospedale”; poco dopo Adriano rimane privo di suo padre, senza alcun punto di riferimento, con una vita terribile ad aspettarlo fuori di casa: gli restano solo la passione e il talento per il calcio. Aveva appena ricevuto il primo regalo della sua vita: una bicicletta. “Ce l’ho ancora quella bici, la terrò per sempre. È il regalo più bello che abbia mai ricevuto” scrive il calciatore, oggi 33enne.
Dalla zappa passa alla fornace: “Dalle 7 alle 4 del pomeriggio devo caricare 20mila mattoni sui camion, sei alla volta. Tre in una mano, tre nell’altra, mettendo le dita nei fori. Ma tagliano, ti spacchi le mani”. La giusta ricompensa dopo tanti stenti arriva poco prima della maggiore età: la vita di Ferreira Pinto svolta quando un osservatore lo nota giocare per strada e gli offre il primo contratto da professionista. Arriva anche la chiamata dal paese dei sogni, l’Italia: lo vuole il Lanciano. Ferreira Pinto non ha i soldi per comprarsi il biglietto aereo: gli abitanti del villaggio vendono il possibile e regalano al ragazzo il viatico per un realizzare il suo sogno. “Perché la gente è buona”, dice Ferreira Pinto.
La storia di oggi la conosciamo tutti. È la storia di un calciatore che ha calcato i più importanti campi (di calcio, questa volta) con le maglie di Perugia, Cesena, Atalanta, Varese e Lecce. Ferreira Pinto si è da poco sposato con Marianna e ha avuto un figlio, Josè Carlos, chiamato proprio come il padre: dall’Italia aiuta i suoi familiari, rimasti in Brasile. È arrivato a Lecce con il sorriso e col sorriso ha segnato ad Ascoli la sua prima, bellissima, rete con la maglia giallorossa. Già, il sorriso. Ferreira Pinto sorride sempre alla vita. E lo fa in modo semplice e dimesso, con la consapevolezza di aver vinto la sfida più difficile. Il suo esempio è per tutti. A chi ha tutto e subito, insegna l’umiltà, l’abnegazione e lo spirito di sacrificio; ma soprattutto, la sua storia è rivolta chi, come lui, non ha niente e vive solo di passioni, dai milioni di ragazzi del terzo mondo ai disoccupati di oggi: non smettere mai di combattere, continuare coraggiosamente ad inseguire i propri sogni con instancabile forza di volontà, perché, alla fine, volere è potere: la speranza, insegna Ferreira Pinto, non muore mai.
[…] d’attacco giallorosso con una toccante storia personale raccontata nella sua autobiografia (LEGGI QUI) ha ripercorso la sua lunga carriera in un’intervista fiume rilasciata […]