LECCE (di Gabriele De Pandis) – Dieci anni senza George Best, uno dei più grandi dribblatori di tutti i tempi e mito calcistico capace di entrare nei cuori degli appassionati non soltanto per le sue gesta sul rettangolo verde. Gli addetti ai lavori lo consideravano il più grande dribblatore di tutti i tempi. Assieme a David Beckham, Eric Cantona e Cristiano Ronaldo ha reso leggendaria la maglia numero 7 del Manchester United. Oggi ricorre l’anniversario della morte dell’ indimenticato centrocampista nordirlandese che ha fatto la storia del calcio britannico ed europeo a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, anni di radicali cambiamenti sociali che nel calcio vedevano proprio l’ala nord-irlandese l’effigie sportiva. “Ho speso molti soldi per l’alcol, le donne, le auto. Il resto l’ho sperperato”. Questa frase racchiude la sintesi della sua ,esistenza trasgressiva ed esagerata come quella di una leggenda.
“Il quinto Beatle”, così ribattezzato dai tifosi del Manchester United, vinse il Pallone d’Oro proprio nel 1968, l’anno del culmine delle proteste studentesche, dopo aver trascinato i Red Devils alla vittoria della Coppa dei Campioni vinta dopo la finale vinta contro il Benfica di Eusebio, altro simbolo di un calcio passato che non è più tra noi. Il nord-irlandese sbloccò l’impasse del pareggio che perdurava nei tempi supplementari con un gol al 97’, prima della definitiva vittoria per 4-1 grazie ai gol di Sir Bobby Charlton e Kidd. Best, non propriamente una forza della natura dato il suo fisico gracile, incarnava uno stile di gioco nuovo, brioso e completo, quasi fuori dagli schemi in quell’epoca di calcio “inquadrato” e radicale.
Gli eccessi in campo e fuori di quest’atleta, in un calcio dove le maglie erano senza scritte e in Inghilterra il football era ancora il gioco della working class, sono sintetizzabili in una sua frase, rilasciata dopo un gol in una delle sfide tra United e Liverpool: “Non so se è meglio segnare al Liverpool o andare a letto con Miss Mondo, menomale che io non ho dovuto scegliere”. Dopo i successi con il Manchester scanditi dagli eccessi, gli anni lontano dai Red Devils, passati tra Cork (Irlanda), Los Angeles, Fulham, Hibernian (Scozia) e Fort Lauderdale (Stati Uniti) furono soltanto il sequel poco gradevole di una carriera da leggenda. George Best è uno dei simboli dell’Irlanda del Nord, territorio dalla storia travagliata e piena di sangue. La città di Belfast nel 2006, in suo onore, ha deciso di intitolargli l’aeroporto della capitale. Prima di morire, in delle confidenze rilasciate all’amico Phil Hughes riprese dal Corriere della Sera, rilasciò queste dichiarazioni per cercare di non indurre i giovani alla piaga dell’alcool: “George voleva che scattassi queste fotografie come monito sui pericoli dell’alcol — raccontò Hughes, suo agente oltre che amico —. Non è mai riuscito a smettere di bere, ma spera che le sue condizioni servano da avvertimento. Fare queste foto è stato straziante”. L’ultimo regalo di Best, “il quinto Beatle” ai suoi tifosi è stato anche il più straziante, ma il declino di un genio del calcio annientato da un’infezione ai polmoni non sminuisce la sua importanza. Best ha sì perso la partita della vita contro la chimera dell’alcolismo, ma i suoi gol, il suo stile e i suoi dribbling rimarranno nella storia dello sport più bello del mondo.