LECCE (di Italo Aromolo) – Il pugile è andato kappaò. Potremmo dire che ha lottato, che era più forte, anche che ha stretto all’angolo l’avversario per tutta la durata del match ma, se temporeggi anziché colpire e non sai finalizzare al momento di vincere, sei destinato a perdere contro il più groggy dei lottatori. È questa la fotografia che le statistiche stagionali scattano allo sciagurato Lecce edizione 2014/’15: un gigante dai piedi d’argilla che, in quasi tutte le partite del campionato, si è riversato nella metà campo avversaria, cercando insistentemente il gol, ma riuscendo raramente a sfondare l’altrui leggerezza, quando non è caduto sotto il peso della propria stazza. Che sia stato lucido o opaco, arido o geniale, inebriante o sprovveduto, è un dato di fatto che il Lecce abbia sempre provato a fare la partita nelle 38 gare stagionali, giocando a viso aperto e non rintanandosi mai per partito preso a protezione della propria area. Lo dicono ad esempio le 49 palle in area che i giallorossi hanno giocato in Cosenza-Lecce, i 20 tiri effettuati in Lecce-Savoia o i 26 cross messi in mezzo durante Lecce-Martina.
Se fosse un film con finale a sorpresa, ci sarebbe ben poco da stupirsi, perché quando hai qualità a centrocampo e una difesa tutto sommato in grado di trasmettere sicurezza, avere il pallino del gioco ed esercitare il predominio territoriale sono solo l’altra faccia della stessa medaglia. Lo spettacolo invece è stato un altro, una sorta di melodramma in cui l’arte dell’offensiva si è concretizzata in un monologo fine a se stesso: questo è stato il punto debole del Lecce. I guai sono arrivati quando la formazione giallorossa si è ritrovata a fare la partita con un solo attaccante di ruolo, con tanti esterni non sempre capaci di saltare l’uomo e di finalizzare la gran mole di gioco prodotta. È quel momento in cui devi inventare qualcosa, perché hai una pletora di uomini davanti ed il risultato non si schioda: o riesci a sfruttare il pertugio giusto, indovini la giornata e realizzi 20 tiri e 3 gol (vedi Lecce-Aversa), oppure, come accaduto il più delle volte, manchi di idee e gioco, torni indietro, temporeggi, vai di nuovo avanti ed alla fine resta tutto un “vorrei, ma non posso”. Così che si spiegano i 30 palloni crossate in area di Foggia-Lecce (zero gol), i 45 di Lecce-Martina (ancora zero gol) o semplicemente i 40 di Vigor Lamezia-Lecce, ultima manifestazione di impotenza.
È mancato, quindi, un reparto offensivo capace di trasformare in oro quel che è luccicato in fase di impostazione: pretendere di andare ai play-off realizzando 50 gol in 38 partite è come chiedere andare in guerra con una pistola che fa cilecca ogni due o tre spari. È mancata la capacità di forzare le difese delle squadre più arroccate, se è vero che gli allenatori cambiati sono stati più dei punti conquistati in trasferta contro le ultime tre squadre del campionato…
Un’inconsistenza offensiva che si è specchiata nella vena realizzativa degli avversari, il più delle volte abili – o fortunati – nell’ottenere il massimo del risultato col minimo sforzo: con pochi affondi, spesso su ripartenze, le rivali giallorosse hanno messo alle strette una difesa che comunque si è qualificata come terza migliore del torneo con 32 gol al passivo. Ruolino meritato, perché se, ad esempio, si passa in analisi la sequenza di gare Salernitana-Cosenza-Aversa del girone di ritorno, ne risulta che i tiri verso la porta di Caglioni siano stati appena 3, precisamente uno a partita. Difficile chiedere di più al reparto arretrato, eppure bisognerebbe capire come mai siano stati conquistati solo tre punti: disattenzioni difensive, calci piazzati ed un portiere non al massimo della forma hanno contribuito, insieme alle deficienze in attacco, a dare un senso d’incompletezza all’opera del Lecce, in quelle tre partite come nel resto del campionato.