LECCE (di Italo Aromolo) – Nella carriera di un calciatore ci sono tappe dove si gioca a calcio per vivere e tappe dove si vive per giocare a calcio. Le prime sono per chi riceve un offerta di lavoro, la valuta col portafogli in una mano e la progressione di carriera nell’altra e va dove lo porta la ragione. Non chiamiamoli cinici, nemmeno mercenari, forse atei o imprenditori. Le seconde per chi ancora fa del pallone una religione, un groviglio indecifrabile di emozioni spiegato solo dal cuore. I vecchi romantici del calcio, coloro che preferiscono sempre le quattro mura di casa alla reggia del dio denaro, perché lì e solo lì ci troveranno la famiglia, i luoghi, gli affetti.
Così, se Alessandro Camisa ha scelto di riabbracciare Lecce dopo anni di Serie B ad alti livelli, non è stato certo per svernare a soli trent’anni. E se Giuseppe Abruzzese ha lasciato la fascia di capitano del Crotone per tornare dove esordì giovanissimo in Serie A, non lo ha fatto per il piacere di scendere di categoria dopo oltre un decennio nei due massimi campionati. Lecce vive di rendita, ultimamente. Perché non sono pochi i calciatori che, nei tempi d’oro del calcio nostrano, si sono innamorati della maglia giallorossa e hanno continuato ad averla come amante segreta in una carriera multicolore, per poi a tornarci insieme. Basti un nome: Ernesto Javier Chevanton. L’abbiamo visto accettare un contratto ai minimi federali, inchinarsi di fronte alla Curva Nord, giocare con un braccio rotto una finale play-off e perderla tra la disperazione. Per amore del Lecce, come ripete in ogni forma di genuina esaltazione sul suo profilo Twitter.
Lo avvicina Valeri Bojinov, che è tornato a Lecce nel gennaio 2012 e ha versato le lacrime più amare nella notte della retrocessione a Verona, di fronte ad una curva altrettanto commovente. Il talento venuto dall’Est è sempre stato riconoscente, nei fatti e nelle dichiarazioni, alla città che lo fece esordire a soli 15 anni nel massimo campionato italiano. E poi c’è quel guerriero di Gennaro Del Vecchio, che insieme alla sua grinta tornò nella stessa sessione per tentare di salvare il Lecce di mister Cosmi. Fu uno di quelli che diede l’anima e non si piegò mai, lottando come se non di più aveva fatto sei anni prima nella derelitta stagione Gregucci-Baldini-Rizzo. Altro figlioccio del vecchio grande Lecce è stato Erminio Rullo: mai una parola di troppo per un vero uomo di spogliatoio, che ha saputo accettare con il silenzio dell’umiltà le tante panchine accumulate nella sua seconda esperienza in giallorosso, conclusasi piuttosto tristemente appena qualche mese fa.
Ci mettiamo anche gli allenatori in questa antologia dei ritorni: Franco Lerda ha legato il suo nome al Lecce per due volte, immergendosi a capofitto nelle avventure in terza serie senza lesinare passione e professionalità. Se fosse richiamato verrebbe una terza e una quarta volta, perché è un perfezionista e nessun perfezionista vorrebbe che la sua opera restasse incompiuta. Zdenek Zeman, infine, è un caso a parte. Per lui non esistono sentimentalismi di sorta, ma solo presupposti per fare calcio con i giovani e divertire la gente. E a Lecce queste potenzialità il boemo le ha trovate ben due volte, la prima producendo una delle migliori edizioni di Zemanlandia (2004/’05), la seconda tradendosi con la sua rigorosa coerenza. Fu lui a lanciare Mirko Vucinic, l’attaccante montenegrino che a Lecce ha trovato l’amore (non solo calcistico) e non ha mai nascosto la volontà di chiudere la carriera nella città salentina. Sarebbe un nuovo clamoroso ritorno, ma forse l’ultimo di una gloriosa generazione al tramonto.