LECCE – Metti l’estate nel Salento. Poi aggiungici il sole, il mare cristallino, i turisti, la storia, i borghi antichi e l’itinerario è bell’e pronto, con il solo imbarazzo della scelta: da Gallipoli a Porto Cesareo, da Otranto a Castro, da spiagge di sabbie bianche, a quelle di alte pareti rocciose. Dall’Adriatico al versante jonico.

Metti l’estate nel Salento e, accanto ai percorsi turistici tradizionali, altri all’insegna della natura, dei prodotti tipici, dell’enogastronomia e del territorio, anche nel suo aspetto morfologico. Nasce così un itinerario nuovo, diverso, ma ugualmente affascinante. Anzi, nasce una moda in forte ascesa negli ultimi anni, anche nel Salento: il turismo rurale, che va alla ricerca del contatto con la natura e con l’ambiente contadino, curiosando tra gli aspetti più autentici del territorio, passando dall’arte della campagna agli usi e alle tradizioni. Arrivando, a fine percorso, all’enogastronomia e alla ricettività. Giusto per dare un tocco di modernità (in perfetto stile turistico) a un mondo se non proprio incontaminato, almeno originale.

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Allora via a un viaggio alla scoperta di agriturismi, antiche masserie fortificate, un tempo dimore estive di casali dei signori di città, trulli e costruzioni in pietra dalla singolare architettura. E ancora percorsi culinari che dalla terra portano dritto alla tavola. O i gettonatissimi percorsi trekking o di cicloturismo, che si legano alla perfezione a queste forme alternative di turismo: zainetto in spalla, mountain bike e tante rotte escursionistiche per conoscere veramente a fondo il Salento nei sui angoli più suggestivi e selvaggi.

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Un patrimonio da conservare e valorizzare
La campagna salentina e le sue costruzioni, mete sempre più ambite dai turisti “moderni”. Sono numeri e statistiche a parlare, o anche solo il movimento legislativo che gravita attorno. Gli enti territoriali (Regione Puglia in primis), si sono attivate da tempo per la formulazione di appositi iter legislativi che da una parte siano diretti al recupero dell’ambiente agricolo col suo bagaglio di storia, tradizioni popolari, arte contadina e architetture particolarissime. E, dall’altra, spingano l’attività turistica, senza poi far cozzare i due aspetti. Così, queste costruzioni stanno ritornando all’antico splendore, vengono recuperate e ristrutturate e, il più delle volte, impreziosite da vecchi frantoi ipogei, cantine e antichi granai testimoni illustri di un Salento ricco di cultura sia popolare, che contadina. Percorsi affascinanti, sparsi per tutto il territorio leccese, capaci di puntare i riflettori dei movimenti turistici anche su piccoli centri dell’entroterra, lontani dai centri più rinomati. Ritagli di storia del Salento di ogni epoca, di fine ‘500 e inizio ‘600, ma anche del Settecento e dell’Ottocento.

Pajare, truddrhi e muri “paralupi”
Sono i simboli di ogni tratto di campagna, partendo dal nord e raggiungendo l’estremo sud del Salento. Nate da antiche usanze dell’attività contadina, ben presto sono diventate vere e proprie costruzioni con speciali e minuziose tecniche tramandate da padre in figlio che, con il passare degli anni, fino ad arrivare ai giorni nostri, si sono trasformate in arti e categorie particolareggiate di mestieri. Sono le prime costruzioni rurali, probabilmente le più antiche. Nate un po’ per esigenza e un po’ come rimedio alla presenza di strati rocciosi tra i campi destinati all’agricoltura, ora sono in tutto il mondo il simbolo del Salento. I contadini, costretti a bonificare i terreni dalla roccia, accatastavano queste pietre di grandezza e forma irregolare senza un ordine preciso. Giusto per fare da margine ai loro campi, almeno fino a quando le esigenze non portarono a delimitare le proprietà. Si passò a un muro più definito, più alto e sollevato, alle volte con specifiche caratteristiche e curiose funzioni. E’ il caso dei “paretoni”, veri recinti delle abitazioni contadine che difendevano gli animali domestici da quelli selvatici. Si trattava di muri alti e più spessi, caratterizzati inoltre da una sorta di cordolo rialzato sporgente (denominato in gergo “cappello”), ostacolo semplice ma importante che impediva l’ingresso di volpi e in, particolare, di lupi. Da qui, infatti, si spiega il loro nome. E, ancora, altri tipi di muri, a seconda dei poderi da delimitare dei proprietari (chiàviche e ghesùre) o degli agenti atmosferici da “combattere” (‘ncurtatùru).

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Truddrhi e pajare
Si tratta di tipiche costruzioni trulliformi, di dimensioni diverse a secondo del loro uso. In pratica, quasi tutte ospitavano i contadini durante il periodo delle colture. Posizionate ai bordi del terreno per non togliere spazio alle coltivazioni, potevano essere a forma piramidale o quadrata, a forma tronco-conica o tronco-piramidale, singoli o integrati con altri recinti, ognuno con funzioni speciali e di protezione. Difficilissima la tecnica costruttiva, fatta tutta di maestria a tanta pazienza. Esperto era il costruttore dell’epoca (pochissimi sono quelli che costudiscono oggi le tecniche di questo sistema architettonico), che si basava sul sistema del triangolo di scarico e usava solo un martello. Uno strumento particolare, che da una parte serviva per battere le pietre e dall’altra per smussarle leggermente. Pietra sopra pietra, senza cemento o squadrature particolari, lasciando un’intercapedine tra il muro esterno e quello interno. Fino all’altezza generica di 15 metri, quando il muro incomincia a stringere e le pietre vengono sistemate verso l’interno. Interessante la grande lastra di chiusura (chiànca), che fungeva da chiave per l’intera struttura, e la porta d’ingresso, generalmente ad arco o difforme a seconda di credenze popolari ed esigenze del contadino.

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