PERUGIA (di Luca Manna) – Quando cresci mangiando pane e pallone ed il calcio è parte integrante della tua vita, puoi tranquillamente affermare che a 34 anni hai già visto tante cose riguardanti quel gioco e su quel rettangolo verde, senza aver paura di essere etichettato come “vecchio” o “nostalgico” quando, per esempio, rivedi la corsa sfrenata di Carletto Mazzone nella partita spareggio con il Torino e ti scappa una lacrimuccia. Per chi come me poi, è cresciuto con il mito di Roberto Baggio, ha sempre ritenuto il Rui Costa della Fiorentina un giocatore stratosferico o ha sempre pensato che Francesco Totti fosse più bello e romantico quando giocava dietro Montella e Batistuta, vedere piano piano scomparire dal calcio dei nostri tempi il “numero 10” per eccellenza a discapito di incursori potenti e muscolosi, bravi a segnare ma con meno magia, è stato sicuramente un duro colpo, assorbito con difficoltà.
Nel nostro Paese, ma in generale nel calcio, a vestire la maglia con il 10 sulla schiena una volta erano i giocatori più talentuosi, quelli in grado di decidere le partite toccando un solo pallone in 90 minuti, quelli che erano insostituibili nel cuore dei tifosi, ma che per alcuni allenatori erano spesso più un problema tattico che altro.
Il cosiddetto calcio moderno presenta schemi ormai evoluti, giocatori in grado di coprire più ruoli senza perdere qualità e lucidità, numeri che vengono snocciolati e riproposti sul campo come se si stesse giocando a tombola piuttosto che a pallone ed è diventato sempre più cinico e freddo e sempre meno incline al romanticismo della magia di una giocata.
Quando Fabio Liverani a Catanzaro ha deciso di schierare il Lecce in campo con un “classico” 4-3-1-2 devo ammettere che il mio cuore ha subito iniziato a battere un po’ più forte, forse perché chi a volte mi dice che sono un inguaribile “nostalgico”, sotto sotto ha ragione.
Dopo 5 anni passati a rincorrere un modulo figlio del calcio moderno e che forse solo Zdenek Zeman e Delio Rossi hanno saputo esaltare sulla panchina della mia squadra, vedere il mio Lecce scendere in campo con il famoso trequartista mi ha subito dato una spinta di entusiasmo in più.
Poi, ho subito capito che il calcio è cambiato ed anche il Lecce oramai fa parte di questa era, che per me rimane fredda o, quantomeno, con meno sentimento, e che in realtà ciò che sarebbe dovuto essere il nostro 10 in campo non sarebbe stato quel che immaginavo, ma il classico centrocampista moderno: un assaltatore, un giocatore in grado sì di puntare la porta, ma purtroppo quasi sempre senza la ricerca della magia per dare spazio alla concretezza.
Sia chiaro, è giusto che un allenatore si adegui a quello che è il calcio oggi e che sfrutti il potenziale che ha a disposizione; Liverani da questo punto di vista ne ha tantissimo con i vari Mancosu, Costa Ferreira, Tsonev ed anche con il capitano Checco Lepore (che il 10 lo ha davvero sulle spalle) che sono il prototipo più aderente alla realtà di quello che viene chiamato “calciatore moderno”.
Capita però poi che ogni tanto la magia decida di prendersi il suo pomeriggio di gloria e torni ad essere protagonista sul campo. E questo è accaduto sabato a Caserta, quando un giocatore mandato in campo a sorpresa e che in passato ha dovuto abbandonare il suo essere 10 nei piedi per trovare spazio in questo calcio, si è ritrovato lì a solcare quelle zolle di terreno che probabilmente tanto lo hanno fatto sognare da bambino.
Con il numero 11 sulla schiena, ma con il 10 nel cuore, nelle scarpette e tatuato dentro, Super-Mario Pacilli ha vissuto un pomeriggio dal sapore antico, per lui e per ogni amante del calcio, iniziando prima timidamente e poi sempre più sfrontatamente a giocare con la fantasia, in tutti sensi che si possano associare al gioco del calcio, iniziando a danzare sul pallone come solo certi giocatori possono e hanno il dono di fare.
Liverani lo sa, noi lo sappiamo: forse nella rosa del Lecce, Pacilli è l’unico giocatore in grado di interpretare quel ruolo in un certo modo, come si faceva tempo fa, in maniera classica, forse non al passo con i tempi di questo calcio che va di corsa in tutti i sensi, ma nella quale è bello ogni tanto immergersi per assaporare il gusto della spettacolarità di giocate che sempre meno spesso vediamo e ammiriamo.
Al minuto 39 di Juve Stabia–Lecce, fra i giallorossi il numero 10 lo ha sulle spalle il capitano che gioca terzino destro e che in quel momento è già fuori (ahinoi) per infortunio, ma in quella zona di campo dove nascono le magie, dove il calcio si trasforma come se fosse sotto incantesimo, Pacilli prende il pallone, salta un primo uomo, poi un altro, quindi ne salta tre, li stordisce come se al posto di giocare a calcio stesse inventandosi una danza bellissima, elegante, ipnotica e pennella un cross perfetto che Matteo Di Piazza finalizza rendendogli giustizia.
In quel minuto, il tempo di chi ama il calcio come me si è fermato ed è stato subito un battito accelerato, subito un ritorno ad un passato che forse non è vero che non c’è più ma è solo nascosto ed al quale serve solo un piccolo aiuto per tornare a brillare forte. Un attimo, forse qualcosa in meno, ma è stata subito magia, la stessa di chi è numero 10, magari non sulla maglia, ma nei piedi…