LECCE (di Italo Aromolo) – La legge n. 91 del 23 marzo 1981 disciplina i rapporti tra società e sportivi professionisti e all’articolo 4 definisce una condizione molto particolare ed unica nel suo genere: l’esonero dell’allenatore. Attraverso questo strumento un tecnico viene sollevato dall’incarico ma ciò non comporta l’interruzione del rapporto contrattuale, né tantomeno una riduzione dei contributi che a fine mese vengono interamente recapitati in busta paga. Si tratta di una peculiarità assoluta del pallone che non ha alcun corrispettivo in fabbrica, a scuola o in banca: al solito, il sibaritico mondo del calcio si distingue per clamorosi risvolti che dal punto di vista giuridico e morale farebbero indignare uno zulù ma che, alla fine, tutti finiscono con l’accettare e far ricalibrare nell’alveo della normalità, vuoi per non cavalcare l’ovvia onda della retorica, vuoi per abitudine a meccanismi di atavica matrice ampiamente storicizzati.
Finchè l’abominio non colpisce da vicino e allora, probabilmente, qualche coscienza in più si smuove. Veniamo al caso del Lecce: una società che sta facendo sforzi economici di altissima portata per riportare la squadra dove merita, impeccabile nella gestione dei conti e con un mercato da cifre da categoria superiore si ritrova a pagare uno stipendio annuo di circa 90mila euro a Pasquale Padalino, allenatore che è stato esonerato lo scorso aprile e che sarà regolarmente retribuito – a meno di accordi e rescissioni a campionato in corso – fino all’ultimo giorno di contratto: 30 giugno 2017. Strilla il portafoglio giallorosso e fischia il suo eco nelle orecchie di tutti al pensiero che, aggiungendo i corrisposti a tutto lo staff del tecnico foggiano (per cui la situazione contrattuale è la stessa), si arriverebbe a una cifra simile a quella spesa per acquistare Armellino, quattro-cinque volte maggiore di quella per ottenere Di Piazza e che avvicina la metà dell’incasso della campagna abbonamenti.
È il prezzo della programmazione, diranno impettiti gli sbandieratori della continuità nel far notare che il Lecce oggi ha il vantaggio di essere squadra che si conosce da due anni e che necessariamente il rifare da zero una rosa avrebbe comportato qualche passaggio a vuoto. Ma non risulta che un calciatore che non soddisfi l’allenatore possa prendersi il lusso di tornare a casa fino a fine stagione. E allora – estendendo i confini della questione al principio- vien da chiedersi perché un allenatore sollevato dall’incarico non possa continuare ad essere a disposizione della propria società, riconvertendone la funzione: potrebbe, ad esempio, svolgere mansioni di scouting scovando nuovi carneadi per il futuro del club; sfruttare le sue competenze tecniche nelle vesti di match analyst o dedicarsi allo studio dell’avversario; curare il settore giovanile o ricoprire un ruolo dirigenziale dietro una scrivania tra aspetti gestionali o di calciomercato. La convivenza con il nuovo allenatore sarebbe mitigata da una netta divisione dei compiti e delle prerogative. Di queste transizioni non mancano gli esempi ben riusciti nella storia recente del calcio: nel 2011 il brasiliano ex Inter Leonardo in quindici giorni passò dalla panchina al ruolo di Direttore sportivo, l’ex Lecce Totò Nobile dopo anni da allenatore adesso è diesse del Gravina e un’altra vecchia conoscenza giallorossa come Mario Beretta ha preso il diploma di Direttore sportivo dopo aver ricoperto nel 2015 il ruolo di responsabile del Settore Giovanile del Cagliari.
A pensarci bene ci guadagnerebbero tutti: le società aggiungerebbero un mattone a costo zero al castello dei dipendenti e per gli allenatori si aprirebbero nuove opportunità di lavoro, cancellando l’onta morale di venire pagati per veder fatto il proprio lavoro da altri. Suggestioni e fantasie di lontana realizzazione? Chiedetelo a chi paga…