LECCE – Torna a parlare Eusebio Di Francesco, allenatore del Lecce, dopo l’intervista concessa qualche giorno fa a TeleRama direttamente da Bressanone, dove si sta svolgendo il ritiro pre-campionato estivo dei giallorossi. Quest’oggi, è stata La Repubblica a raccogliere le dichiarazioni del tecnico pescarese che non hanno riguardato solamente le impressioni circa il proprio organico ed il suo ritorno in Salento, ma anche delle questioni di cronaca quotidiana, fra cui la brutta situazione di conflitto in essere in Palestina.
Queste le parole dell’ex mister di Sassuolo e Roma, fra le altre, sulla sua seconda e nuova avventura al fianco del Lecce: “Quando arrivai nel 2011 il club allora era in autogestione, oggi è solido, io ero alla prima esperienza in Serie A. Sono cambiato e sto ancora crescendo, resto curioso ed amplio le mie vedute. Mi definivano integralista, ma non mi sono mai sentito tale. I giovani parlano di gioco e costruzione, io non facevo eccezione, però il mio obiettivo è sempre stato il risultato e non l’estetica. Oggi cerco di mettere a loro agio i calciatori, al centro non ci sono i moduli, ma l’intensità. Non esistono più i giocatori che passeggiano ed il modello è il PSG: in cui corrono tutti, senza primedonne. Camarda? Vediamo se è pronto. Di sicuro ha una gran fame, forse anche troppa, si dispera per ogni gol sbagliato, ma l’errore è parte del processo di crescita. Con Corvino prima di parlare di calcio, chiacchieriamo mezz’ora delle sue passioni come i quadri, le piante, soprattutto gli ulivi“.
Poi, Di Francesco ha mostrato la sua visione su temi più profondi come detto in precedenza, affermando: “Uno dei timori che ho è la cattiveria, ce n’è troppa in giro: i ragazzi si accoltellano mentre la gente filma. Visitai il Kosovo con Tommasi, dopo il conflitto ed ora, da padre e da nonno, non accetto quello che sta succedendo ai bambini di Gaza. Il mio idolo? Nelson Mandela. Ma invecchiando capisco che le basi me le hanno date i miei genitori, mi hanno insegnato il rispetto per gli altri. Il nostro albergo di famiglia? Una mano l’hanno data, ma i ragazzi di oggi sono diversi, devi chiedere loro di togliersi il piatto da tavola. Io ero un ottimo sparecchiatore, mio padre a ogni brutto voto mi faceva trovare pronta la divisa da cameriere. Quando cominciai a giocare, mi disse: “Se vuoi fare il calciatore, vai lontano. Se resti a Pescara, ti faccio lavorare”. L’hotel c’è ancora, ma i miei sono anziani, lo abbiamo venduto“.
Infine, l’allenatore abruzzese ha sottolineato come ci siano certe regole anche in squadra, come il non utillizzo del cellulare a tavola, raccontando poi il percorso fatto con uno psicologo in questi anni a margine delle delusioni di campo: “Lo psicologo mi ha aiutato a superare le due retrocessioni in due anni, all’ultima giornata, con Frosinone e Venezia. Botte su botte… ho fatto un percorso con una società di comunicazione per assorbire le sconfitte e trasmettere messaggi corretti ai giocatori. Io all’estero? Guardo serie tv per migliorare l’inglese, ma non è il momento di andare all’estero, in Italia ho quattro nipoti. Se tifo la Roma? Sono legato ai tifosi ed ai compagni di allora, primo fra tutti Montella, ma la squadra del cuore resta il Pescara. Per mio figlio Federico è diverso, Totti lo faceva sedere sugli armadietti. Ci sono delle regole per i calciatori, sono passato dalla hall dell’albergo e nessuno mi ha guardato in faccia, erano tutti sullo schermo. A cena pretendo condivisione, cellulari in tasca e si chiacchiera. Berardi a ogni gol dice ancora “me l’hai insegnato tu”, Acerbi mi ringrazia per una lezione: lo tolsi dal campo al 13’ del primo tempo in amichevole, se lo meritava. Eusebio? Lo incontrai a Valencia, facemmo una foto insieme. Mio padre ci teneva, ma l’ho persa dalla memoria del telefono. Da allora, le foto le faccio stampare, della tecnologia mi fido poco. Con Mangone, mio compagno alla Roma, eravamo sulla sua Porsche, dimenticò di aver lasciato a casa il Telepass e sfondammo la sbarra al casello. Da allora rallento un chilometro prima. C’è scritto 30? Vado a 25».“.