Mazinho nella sede della sua agenzia, The Player Management (foto The Player Management)

LECCE (di Italo Aromolo) – Iomar do Nascimento, per tutti Mazinho, aveva 24 anni quando nell’estate del 1990 lasciò il Brasile in cerca di fortune europee e scelse Lecce, ignoto angolo d’oltreoceano, per approcciarsi al campionato di Serie A.

Mazinho collezionò 34 presenze nella compagine salentina di mister Zibì Boniek e ne fu l’anima in campo: centrocampista di rottura e sostanza, realizzò anche due gol, ma non riuscì ad evitare la retrocessione dei giallorossi in Serie B.

Il calcio italiano non seppe cogliere la purezza del suo talento e dopo solo due stagioni – la seconda nella Fiorentina – tornò in patria: lo aspettava la Seleҫᾶo e una rivincita niente affatto male nel Mondiale di USA ’94, vissuto da protagonista con la presenza da titolare nella finalissima vinta ai rigori contro l’Italia.

Oggi Mazinho è un agente di calciatori e si occupa della procura dei suoi due figli, Thiago Alcántara, centrocampista del Bayern Monaco, e Rafinha, in forza al Barcellona.

Cosa accadde nell’estate del 1990 e perchè dal club brasiliano del Vasco da Gama passasti al Lecce?
Arrivai in Italia grazie al procuratore Giovanni Branchini, che al tempo si occupava di gestire tutti i giocatori brasiliani. Ricordo che avevo l’accordo con due club, Lecce e Pescara, ma alla fine scelsi il Lecce. È stata un’esperienza fantastica perché fu la mia prima nell’Europa calcistica. E poi quando ero a Lecce nacque Thiago, il mio primogenito: esattamente in provincia di Brindisi, nell’ospedale di San Pietro Vernotico”.

Rimpiangi di essere tornato in Brasile dopo solo due annate?
Nel 1991, dopo un anno nel Lecce, mi trasferii alla Fiorentina. Dopo poche giornate il mister Sebastião Lazaroni fu esonerato e al suo posto arrivò Gigi Radice. A fine stagione diventai il quarto giocatore straniero, quando il limite massimo era di tre per squadra. Volevo tornare in Nazionale per disputare il Mondiale, così feci ritorno in Brasile, al Palmeiras”.

L’Italia del 2018, nemmeno qualificata ai Mondiali, è lontana parente di quella da te affrontata ad USA ’94. Nelle responsabilità di questa involuzione generazionale vedi più il caso o l’incapacità del sistema a far crescere talenti?

Foto The Player Management

Non è semplice dare una risposta dall’esterno. Bisognerebbe capire come lavorano i club, come si comporta la Federazione, i profili che cercano… Durante le ultime qualificazioni per la Coppa del Mondo, l’Italia non ha avuto un chiaro sistema di gioco, ma nel 1994 fu tutta un’altra storia. Un tecnico importante come Arrigo Sacchi allenava giocatori del calibro di Baresi, Baggio, Maldini, Donadoni, Costacurta, Massaro, Pagliuca: il livello di tecnica era altissimo, la preparazione tattica eccellente in una Nazionale praticamente perfetta. Sfortunatamente per voi, trovaste un Brasile allo stesso livello tattico, difensivamente ben impostato e con grandi capacità di gestire la sfera tra i piedi. La finale fu molto equilibrata, con poche occasioni e si arrivò ai calci di rigore. Era un Italia molto diversa, con giocatori di un livello molto, ma molto alto…

Non è molto frequente che un calciatore, appese le scarpe al chiodo, diventi procuratore…
Prima di diventare procuratore, ho allenato l’Aris Salonicco in Grecia, nel 2009. Poi sono stato Direttore sportivo per un anno, ma non è stata un esperienza positiva per le troppe persone che mi circondavano. È molto complicato gestire un club, non c’è mai abbastanza calma ed era un momento importante per la vita dei miei figli. Thiago e Rafinha erano in procinto di passare al Barcellona, così lasciai tutto per prendermi cura delle loro carriere ed è quello che faccio ancora ora, cercando di dare consigli sia dal punto di vista sportivo che personale, come padre. È per questo che ho scelto di intraprendere la vita da procuratore”.

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