LECCE (di Italo Aromolo) – Due giornalisti ed una vita professionale al servizio delle cronache sportive dell’U.S. Lecce, più a lungo di qualunque dirigente, allenatore, presidente o giocatore che si voglia immaginare. Elio Donno e Umberto Verri hanno narrato e narrano ancora le vicende che hanno fatto la storia del Lecce fino ad entrare a farne parte pressoché di diritto. Dalla macchina per scrivere degli anni Cinquanta, quando l’attesa della carta stampata il lunedì mattina era l’unica a solleticare l’ansia di conoscenza dei tifosi, per passare alla tastiera del pc nel tecnologizzato mondo dei social network di oggi: promozioni, sconfitte, successi, delusioni e scandali sono tutte situazioni passate dalla loro penna e che, sicuramente, in tanti avranno letto restando colpiti non solo per la notizia che riguardava la propria squadra del cuore ma anche per le parole, i toni, le metafore , le espressioni e le immagini che hanno utilizzato per comunicarle. Per Elio Donno, storico corrispondente del Corriere dello Sport e del Corriere della Sera, ed Umberto Verri, decennale prima firma de La Gazzetta del Mezzogiorno, inizia rispettivamente la 63esima e la 54esima stagione al seguito della squadra giallorossa: centovent’anni di Lecce sintetizzati in quest’intervista doppia a Leccezionale.it.
Come e quando avete cominciato le cronache giornalistiche per il Lecce?
E.D. “Avevo 17 anni e giocavo nella Juventina come portiere: un settimanale, il “Mercoledì sport” sezione calcio, chiedeva alle società il tabellino e gli articoli delle partite. Attilio Adamo, indimenticato scopritore di talenti leccese, mi chiese di scriverne qualcuno, ci presi gusto e lasciai il calcio per il giornalismo. Cominciai con il ‘Corriere del Giorno‘ di Taranto, e nel 1955, quando avevo 17 anni, mi dissero che avrei scritto del Lecce. Erano le ultime partite del Lecce in Serie C; perdemmo 3-0 con il Bari e poi retrocedemmo in Serie D: era una giornata piovosa e il mio titolo fu ‘era destino’ con occhiello ‘anche il cielo ha pianto’. Da allora ad oggi, scrivo di tutte le partite del Lecce: salvo rarissime eccezioni, ogni domenica ininterrottamente da 63 anni”.
U.V. “Ho cominciato quasi per gioco, scrivendo le cronache delle manifestazioni sportive che si svolgevano al convitto ‘Palmieri’ sul giornalino locale. Nel corso della stagione 1963/’64 andai al campo per vedere una partita: Lecce-Akragas; il giorno successivo, dopo aver letto un articolo di uno dei migliori giornalisti di allora, Domenico Faivre, scrissi un pezzo in cui esprimevo il mio disaccordo su alcune valutazioni da lui fatte a livello tattico e di singoli giocatori. Affermavo che è vero che bisogna essere sempre vicini al Lecce, però occorreva anche essere obiettivi e leali perché la squadra potesse migliorare. L’articolo fu letto e apprezzato dal giornalista, che mi chiamò a lavorare con sé al ‘Pungolo Sportivo‘ e mi permise di cominciare la grande avventura in questo mondo”.
Qual è stata, a vostra memoria, la stagione migliore del Lecce?
E.D. “Il periodo più bello è stato quello della conquista della Serie B con Mimmo Renna alla guida tecnica, che arrivò nella stagione ’75/’76 dopo vent’anni consecutivi di sofferenza in Serie C. In seconda battuta il salto in Serie A del 1984/’85”.
U.V. “La più bella è stata la promozione con mister Renna dalla Serie C alla B, quando ho partecipato attivamente a tutte le manifestazioni: ricordo ancora la gente al ‘Via del Mare’ con i passeggini a vedere l’ultima partita con il Sorrento, quando c’erano 5000 persone attorno al campo oltre a quelle sugli spalti. E poi si è coronato il sogno dell’avventura della Serie A grazie alla prima pionieristica era di Jurlano e Cataldo: sono stati i primi fautori del grande calcio, poi pienamente compiuto grazie a tutta la famiglia Semeraro e a Pantaleo Corvino. Oggi ci ritroviamo in questo grande dimenticatoio della Serie C per una sciocchezza finale, con lo sforzo comune da parte di dirigenti dal cuore veramente giallorosso per poter gioire della promozione in Serie B”.
Un calciatore o allenatore che vi sono rimasti particolarmente nel cuore.
E.D. “Sono particolarmente legato ad Eugenio Bersellini, morto recentemente e al quale mi lega un episodio che ha segnato la sua vita professionale. Alla fine degli anni ’60 era capitano del Lecce e fu promosso allenatore dal presidente Indraccolo. Il lunedì lo trovavo spesso in un bar in Piazza Mazzini, ma quella sera era stato contestato perché il Lecce aveva ottenuto un risultato negativo e ci diceva l’indomani si sarebbe dimesso. Con tre amici lo prendemmo, andammo a mangiare insieme e prima di salutarci gli dissi chiaramente che stava agendo da vigliacco. Mi guardò male e andò via. Il giorno dopo mi chiamò e disse che mi avrebbe dimostrato di non esserlo. Giocammo contro il Latina, vincemmo 2-0 e iniziò una serie di risultati positivi consecutivi. Poi andò in B col Como, l’anno dopo al Cesena in Serie A fino a vincere uno scudetto con l’Inter. E all’apice del successo mi scrisse una lettera, che conservo ancora, per ringraziarmi del fatto che se non gli avessi dato quella sera del vigliacco avrebbe lasciato il calcio e ‘sarebbe finito a vendere farina a Borgo Taro’, il suo paese di nascita”.
U.V. “Sono davvero in tantissimi i giocatori e gli allenatori con cui si è instaurato un bel rapporto. L’ultima testimonianza di affetto qualche settimana fa: l’arbitro di Catanzaro-Lecce è stato Nicolò Cipriani, il figlio di quel Loriano Cipriani che giocò nel Lecce a metà degli Anni Ottanta. Prima della gara, il padre mi ha chiamato per ricordarmi che il figliolo avrebbe fatto da arbitro alla squadra da lui guidata per la prima volta in Serie A trent’anni prima. Tra gli allenatori citerei Carlo Mazzone ed Eugenio Fascetti che sono nel cuore di tutti, ma anche il dottore Peppino Palaia con il quale ogni domenica mattina andavamo a correre insieme al preparatore Roberto Sassi. Sono stati momenti in cui ho vissuto la vita completa accanto al Lecce e a cui oggi, in un contesto profondamente mutato, ripenso con un pizzico di rammarico e nostalgia”.
Il meglio del calcio di ieri e di oggi: cosa riprendereste dal passato e vi aspettavate dal futuro?
E.D. “Trasporterei indietro la professionalità e il rigore metodologico che oggi ruotano attorno al calcio: prima negli allenamenti c’era molta praticità, meno rigore scientifico e duttilità interpretativa degli schemi. Il modo di pensare del giocatore è cambiato ed è più consapevole di quello che fa in campo, come pure l’approccio all’avversario: oggi si sa tutto, mentre prima già era tanto riuscire a mandare un osservatore. Dal passato invece, dal punto di vista professionale, riprenderei la possibilità di dialogare con i giocatori senza i limiti degli uffici stampa in un rapporto di reciproco rispetto, sapendo allora come oggi che nel giornalismo la furbizia non esiste. Il giornalismo fatto di dialogo con i calciatori è purtroppo oggi sparito, relazionandoci noi con loro soltanto per quei pochi minuti al di là del tavolo della sala stampa. Prima eravamo a stretto contatto con i giocatori e avevamo un vero rapporto umano: ciascuno di loro mi faceva tante confidenze che per un tacito accordo non avrei mai scritto, ma che mi servivano giornalisticamente per inquadrare certi fatti e certe situazioni”.
U.V. “Mi mancano la lealtà e la partecipazione con cui allora potevi fare il tuo lavoro, in uno spirito di collaborazione con la società per cui ciascuno collaborava con le proprie competenze, ma in comunione di idee, remando nella stessa direzione; oggi tutto ciò non esiste più, perché c’è una divisione tra squadra, calciatori e stampa davvero notevole. Il nostro è stato un giornalismo pionieristico; molte volte mi trovavo in grandissima difficoltà perché si trasmetteva il pezzo via telefono e stenografo, tanto che refusi tipografici davvero impressionanti non erano rari. Però era bello anche quell’aspetto, perchè ti trovavi ad essere protagonista di ciò che facevi. Oggi sulla tastiera occorre rimanere in un certo numero di battute a discapito dell’espressività e della bellezza della scrittura, che diventa asfittica, con meno fantasia ed inventiva personali”.