Marco Rizzo
Marco Rizzo

LECCE – Con il terzo racconto breve dell’autore leccese Marco Rizzo, intitolato “Dal Salento col talento” si conclude la pubblicazione di tre sue narrazioni a cui abbiamo voluto dare spazio nelle ultime tre settimane (“Una cosa bella” e “Un pasticciotto non è mai sprecato). Si parla di un viaggio reale ed al tempo stesso immaginario, che vede protagonista un ragazzo in cerca di lavoro ma, fondamentalmente, in cerca di sé. E l’incontro con dei personaggi famosi (personalmente egli li reputa dei miti assoluti, ciascuno per un motivo diverso) gli farà cambiare idea su quella che è la sua condizione e gli darà quella spinta emotiva che spesso è la chiave di volta per cambiare il nostro percorso di vita. L’ispirazione è venuta per Marco Rizzo pensando a chi fossero Totò, Massimo Troisi, o Leonardo da Vinci, oltre a tutti i vari personaggi, prima di “mettersi all’opera”. Ovvero, quando l’illustre sconosciuto Leonardo ha pensato di poter diventare il più grande cervello di tutti i tempi? L’avrà mai pensato? E se non ci avesse mai provato, saremmo oggi in grado di viaggiare su un aereo? Tanti interrogativi che portano ad una sola risposta: scava in te stesso, perché, magari, racchiudi un tesoro che tenere nascosto sarebbe un peccato per te, ma magari anche per gli altri…

Come sempre, buona lettura.

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“Mi dispiace, ma se non ha nessuna esperienza, non possiamo fare niente!”

“Sì, ma ho la voglia massima di imparare e sono motivatissimo!”

“Senta, questo è un ristorante, non un campo-scuola. Qui non ci serve gente che voglia imparare, ci serve gente che sappia servire ai tavoli nel minor tempo possibile, che abbia già imparato, insomma. Mi dispiace, davvero”.

Il suo discorso era indiscutibile, da un lato. Dall’altro, mi sembrava di essere in un mondo irreale. Insomma, mi chiedevo, che mondo è quello in cui un laureato in Lettere non viene messo nella condizione di fare ciò per cui ha studiato? E questa era la domanda più vaga, quella a cui si risponde facilmente con un’alzata di spalle, adducendo che siamo tanti, che il lavoro è poco e una serie di teorie spesso condivisibili ma che non riuscivano mai ad essere esaustive. E che mondo è, quello in cui un laureato in Lettere non riesce a trovare mezzo impiego in altri campi? Può, un laureato in lettere, essere rifiutato da un ristoratore, per il solo difetto di non avere esperienze precedenti? Ogni passo che facevo, quella mattina, era una domanda che andava a rimpolpare la coda dei mille interrogativi che, impazienti, aspettavano la risposta nella mia testa, in fila, davanti ad uno sportello dove l’impiegato addetto li lasciava sempre insoddisfatti. E loro puntualmente ci ritornavano. E se ne andavano, ogni volta più delusi di prima.

La tramontanella di quella mattina di aprile non riusciva nemmeno minimamente a raffreddare la mia rabbia e a scompigliare il mio sconforto. Decisi di chiamare Alessandro. Era uno dei miei più cari amici e, a differenza mia, aveva trovato maggior fortuna lungo il suo percorso. Oddio, il “suo percorso” comprende anche i nove mesi in cui sua madre lo tenne in grembo. Sì, perché Alessandro nacque con la vita praticamente in discesa. Il padre apparteneva ad una delle famiglie più antiche e “famose” di Lecce, era avvocato ed assessore al Comune.

La madre aveva ereditato la farmacia di famiglia, dopo essere diventata farmacista anch’ella. Insomma, nascere per lui fu come uscire da una galleria e ritrovare l’asfalto ricoperto di banconote, cibo, fama, ville e donne. Sì, ad un neonato tutte queste cose non interessano, ma Alessandro seppe apprezzarle prima di quanto si possa credere. Padre avvocato e madre farmacista, la carriera accademica era anch’essa pressoché segnata. O l’una o l’altra. E infatti, si iscrisse a Milano. Alla Facoltà di Architettura.

Lo ammiravi e avresti voluto essere al suo posto, ogni tanto, ma si faceva voler bene da chiunque. Diventammo amici un pomeriggio d’estate. Ero immerso in uno dei miei soliti, meravigliosi, giri in bici. Passai vicino al campetto e vidi che giocavano. Un ragazzo che veniva in classe con me mi urlò qualcosa e dopo essermi avvicinato capii che gli serviva un portiere. Ruolo che io non sapevo minimamente ricoprire, ma a loro non importava. Il calcio tra bambini non è come la vita. Non importa quello che sai fare o non fare. Quello che importa è che tu sia pronto a giocare, in qualunque ruolo. Sì, forse non era poi così diverso dalla vita. E così, quel pomeriggio, conobbi Alessandro e da allora diventammo pressoché inseparabili. Mi sedetti su una panchina della villa e lo chiamai.

“Bastardo! Allora? Come va in Terronia?”

“Eh, insomma! Oggi ho depennato anche il cameriere dai mestieri che potrei fare!”

Seguì una sua risata.

“Che ridi, architetto dei miei stivali?”

“Scusa, ma lo sai che non lo faccio con cattiveria!”

La telefonata proseguì con una serie di banalità, di cose che un amico che se la passa bene è tenuto a dire ad un amico che se la passa male e viceversa. A lui andava tutto alla grande e mi propose di andare a stare qualche giorno da lui. Mi sarebbe servito a svagarmi un po’. Come le altre volte in cui ero già andato a trovarlo. Gli dissi che gli avrei fatto sapere. Tornato a casa, comunicai ai miei che l’ennesimo viaggio della speranza era andato a vuoto, che nemmeno in un ristorante mi volevano. Frasi di conforto misto a incitazione e consolazione temporanea. Sì, forse Milano poteva rappresentare un attimo di svago, di fuga dalle mille paranoie. Magari al ritorno ci avrei scritto su una storia e magari sarei finalmente riuscito a finire un libro, dopo tanti libri incompiuti. E magari avrei trovato un editore. Magari. Decisi che quella vacanza non mi avrebbe fatto male.

Due giorni dopo, alle diciannove e venti, ero sull’Intercity Lecce-Milano Centrale. Due anziani, marito e moglie, erano già seduti nel mio scompartimento. Lei sembrava tesissima, quasi come se dovesse viaggiare a cavallo di un drago. Lui era intento a fissare ogni angolo del treno, come un esperto d’arredo che osserva una casa. Fui soddisfatto della compagnia: niente chiacchiere obbligate, niente conversazioni lunghe e inutili. Con gli anziani era quasi sempre così: della vita sapevano già tutto.

E così, mentre il treno squarciava la Puglia, io ero assorto nelle mie speranze, che, in una improvvisa metamorfosi hydiana, divenivano paure. Cercai di non pensarci e mi configurai il tragitto di quel viaggio: la strada ferrata tra gli uliveti, la bianchissima Ostuni, la fermata alla stazione di Bari, il passaggio dalla interminabile Puglia al lillipuziano Molise, il porto di Ortona, le anonime Marche, la nebbia della placida Emilia-Romagna e infine Milano e la sua vita che scorre frenetica.

Man mano, il sonno cominciò a farsi strada, come il custode di un parco al momento della chiusura. All’improvviso, dagli altoparlanti giunge voce che siamo in arrivo alla stazione di Napoli. Sobbalzo, Napoli non era sull’itinerario da compiere. Mi viene da chiedere ai due anziani, ma non ci sono. Saranno scesi già, evidentemente.

Il treno si ferma e comincia a salire un po’ di gente. Odore di caffè. Si diffondono voci, ma una in particolare, mi sembra d’averla già sentita. “Facit’ ‘e brav’! Con calma, salimm tutti!” Una voce che mi è familiare, pur nella sua cadenza partenopea. Il vociare continua e i passi si avvicinano sempre più. Quello che mi si presenta davanti è un qualcosa di incredibile, di assurdo.

Uno dopo l’altro, entrano nel mio scompartimento tre signori che conosco bene, pur non avendoli mai incontrati prima. Il primo è ricciolino, secco secco, ed era sua la voce che avevo sentito poco prima. Mi fa un cenno con la testa, a mo’ di saluto. Resto inebetito e cerco di ricambiare il saluto.

“Massimo, dacc’ na man’ cu sti bagagl’!” gli dice il secondo passeggero. Questi è bassino, il naso adunco e indossa un cappello vecchio. Inconfondibile. Mi vede e mi porge la mano. “Piacere, Antonio de Curtis!”

“Principe! Vi salutate dopo, jà! Pensiamo alle valigie!” gli dice il terzo, mentre prova ad aiutare Massimo. “Sì, scusami, Renato”.

E si siedono, tutti e tre di fronte a me. Da sinistra a destra, Massimo Troisi, Renato Carosone e Totò. Pazzesco. Notano il mio smarrimento, probabilmente, tanto che Troisi mi chiede se mi sento bene.

“Sì, sì. Tutto bene” gli rispondo, mentendo spudoratamente.

“E dove andate di bello, giovanotto?” mi chiede Totò.

“A Milano”.

“Emigrante?” fa Troisi.

Penso che quella frase gliel’ho già sentita, ma gli rispondo di no, sorridendo.

“Per lavoro?”

“Magari! No, vado a trovare un amico!”

“Non lavorate?” mi chiede Carosone, che era rimasto zitto fino a quel momento.

“No. Son laureato in Lettere, mi piace scrivere racconti, ma non trovo lavoro nemmeno nei ristoranti!”

Troisi mi guarda in modo strano. “Ma scusate, io non è che voglio dire, per carità, senza offesa. Ma voi prendete la laurea in Lettere per lavorare in un ristorante? Cioè, ma a sto punto, tanto vale che uno con la laurea in Lettere faccia il postino, no?”

La logica schiacciante e sarcastica di Troisi mi mette un po’ di buonumore, se non altro, ma gli spiego la mia situazione. Mi ascoltano tutti e tre con attenzione e Totò, come a voler esprimere il parere di tutti, prova a darmi la sua opinione. “Giovanotto, quello che vi serve, lo avete già. Lo avete in testa e nel cuore”.

Lo guardo perplesso e lui muove la testa in avanti.

“Dite che vi piace scrivere? E scrivete! Sapete chi siamo noi?”

“Sì, ne ho sentito parlare…” gli dico, pensando di essere simpatico.

Si incupiscono e li tranquillizzo “Scherzavo, certo che vi conosco! Siete tre monumenti, tre persone conosciute in tutto il mondo”.

“E sapete perché ci conoscono? Perché abbiamo espresso quello che avevamo dentro. Provateci anche voi. Esprimete quello che siete e non vi fermate mai. Male che vi vada, avrete qualcosa da leggere da vecchio”, mi incita Carosone.

Poi il treno si ferma di nuovo e scendono tutti e tre, senza nemmeno salutare. Guardo fuori per salutarli, almeno dal finestrino, ma non li vedo scendere.

“Mah! Magari è la stanchezza!” mi dico.

Nel frattempo, noto che il cartello della stazione recita la scritta “Firenze”. Nemmeno Firenze era sull’itinerario, ma comincio ad abituarmi alle cose strane. Cos’altro potrà succedere? Un odore strano comincia a diffondersi nella carrozza, mentre sento altri passi avvicinarsi. Un odore di umido, di vecchio, quell’odore che senti nei locali chiusi o quando ritrovi delle cose vecchie, dimenticate da qualche parte. L’uomo che fa ingresso nello scompartimento rischia di procurarmi un infarto, stavolta. Un lungo vestito rosso, di chissà quanti secoli fa, lo copre, e una corona di alloro gli cinge il capo. In mano ha un libro enorme e vecchio anch’esso.

“Messere!” mi dice, facendo un mezzo inchino.

Dietro di lui, ecco entrare un altro individuo. Ha la barba lunga e lunghi sono anche i capelli. L’aria assorta, come se stesse architettando chissà quale piano. All’improvviso si accorge di me e mi saluta: “Messere, son Leonardo. Vengo da Vinci”.

“Piacere di conoscerla!” è la frase che mi sembra più appropriata per mostrargli la mia ammirazione.

Poi mi guarda perplesso, ma non guarda me. Ha notato il lettore mp3. Si siede e fa un cenno con il braccio all’altro, che era intento a leggere il librone.

“Oh Dante, ma che tu hai visto che rudimento ha costui? La sarà mica un’arma? Un nuovo archibugio?” gli dice a voce bassa.

Dante fissa il “rudimento” e mi domanda, fingendosi gentile, “Messere, posso chiedervi qual funzione ha lo strumento che portate?”

Gli spiego, sorridendo, che cos’è. Ma dopo non so quanto tempo trascorso in spiegazioni, la sensazione è che non abbiano capito proprio niente. E da lì cominciamo a parlare del più e del meno, del perché son lì e dove vado. Gli dico le stesse cose che avevo detto al trio napoletano ed anch’essi provano a consolarmi.

“Non so cosa intendiate per ristorante e per laurea, messere. Ma so cosa vuol dire scrivere. Sapete, questo librone si chiama Divina Commedia e l’ho scritto io, modestamente. Diglielo, Leonardo”.

Leonardo lo guarda con sufficienza e mi fa “Sì, è verissimo. Lui scrive. Come me, del resto. Va menzionato che io ho anche altri modi per trastullarmi, però. Mi piace dipingere, scolpire, creare invenzioni. Insomma, non son niente male nemmeno io, n’è vero!”

“Se non vi chiamaste già così, vi chiamerei Leonardo da Vinci, tanto siete bravo!” prova a sbeffeggiarlo Dante.

“Messere, quel che posso dirvi è di non abbattervi e di provare a fare ciò che più vi aggrada. Qualsiasi cosa, provateci. Il talento non va mai nascosto!”

Leonardo gli va dietro. “Concordo! Non pensate che per noi sia stato facile, messere! Non siamo nati già così. Abbiam dovuto dimostrare il nostro valore. E credetemi, nascere a Vinci e alla fine della vita dover ammettere di aver perso, non sarebbe stato bello. I menestrelli non avrebbero aspettato altro per canzonarmi!”

Il treno si ferma di nuovo ed all’improvviso scendono anche loro. Nel frattempo, s’è fatto giorno e il sole splende. La sua luce illumina il mio viso, mentre apro gli occhi. Nella testa, le mille paranoie non ci sono più. Al loro posto, campeggia la scritta “talento”. Talento che andava espresso e che portavo ovunque con me. Anche stavolta. Probabilmente l’avevo messo in valigia, tra i calzini e le canottiere. Mi sentivo meglio e, con delle idee sul prossimo futuro. Arrivammo a Milano e presi i bagagli, pronto a dimostrare a me e al mondo che potevo dire la mia. E quindi uscii a riveder l’Italia.

Commenti

1 commento

  1. carmeloquarta84@gmail.com

    Egregio Direttore,
    Sono Carmelo Quarta, il ragazzo non vedente di Castrì ma residente da pochi anni in provincia di Torino e vostro fan.
    Innanzitutto porgo le mie scuse anticipate per il disturbo arrecatovi con le mie frequenti e-mail. Desidero farvi i miei più sinceri complimenti per le continue news che ci fornite ogni giorno con estrema prontezza e precisione; inoltre, ho avuto modo di leggere ed apprezzare i tre racconti dello scrittore Marco Rizzo che avete postato sul sito; chiedo, cortesemente, se poteste girargli i miei complimenti; ho fatto leggere i racconti a mia moglie che ha apprezzato ugualmente e non vediamo l’ora di leggerne degli altri; ripeto, desideriamo fare i più sinceri complimenti anche a lui per la passione che esprime nel leggere i suoi racconti; scrive veramente bene.
    Ringraziandovi per la cortese attenzione, porgo i più cordiali saluti anche da parte di mia moglie!
    Carmelo Quarta.

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