Salice Salentino – (di Graziella Lupo Pendinelli) – Una storia di un uomo. Lui, Mimino, aveva ancora 19 anni quando lo sgherro del destino piantato addosso gli ha sottratto la madre e il padre in soli 23 giorni a fine estate del 1972. Costretto dallo Stato e dalla legge, portò il suo doppio lutto in una divisa e lontano dai suoi ulivi, dalla sua casa, dalla sorella prossima per età e destino, Nina. Consumati i 18 mesi (o forse meno, chi lo sa, il suo racconto oramai è troppo sbiadito) tornò al paese consumato ma con il suo dolore integro.

Una storia di un uomo con una donna- Fece l’incontro con una donna e convennero a matrimonio, con tempo snello. Le solitudini cercano le consolazioni più bizzarre.

Una storia di un uomo, una donna e dei loro due figli- Consumato il matrimonio e i previsti amplessi, arrivò il primo figlio e un po’ più in là anche il secondo. Scivolarono così i primi 10 anni di matrimonio, nel lavoro duro in campagna con investimenti e nuovi acquisti di terreni e mezzi, in un menage familiare compatto. La sorella Nina, quasi gemella per età e gemella per vissuto, nel frattempo si era sposata anche lei ed era andata a vivere in una casa propria e di nuova realizzazione a 10 metri dal fratello. Vite legate che procedevano nella partecipata illusione di senso e di felicità.

Una storia di una famiglia e dei legami parentali- Una sera di settembre, mese foriero di autunnali dolorosi cambiamenti, la coppia esplose in esternazioni di disamore e il personale familiare scivolò come un unto abbarbicato sulle strade, fuori dalla protetta e segreta domus.

Una storia di un gruppo familiare e di una comunità cittadina- Era il 1990. Lei si trasferì 7 chilometri più in là, nel paese di provenienza e tornò a stretta convivenza con il padre di notoria fama di padrone; portò con sé i figli che avrebbe utilizzato a strumento di gestione relazionale con il marito. Ma questa è prassi consolidata nelle gabbie familiari: si fanno i figli per confermarsi nelle rispettive sbiadite identità di genere, nei ruoli; si fanno i figli per la stirpe imperdibile a colorazioni maschili; si fanno i figli per rinsaldare i rapporti dopo la pratica, anch’essa lecita nel matrimonio, del reciproco tradimento. Lui rimase lì dov’era. Consumato, ma con un aggiornamento e un’addizione di dolore, con una struttura di menzogne e illusioni, con il tratteggiarsi di fragilità psichica, offeso dal rigore di idee genealogiche mai rimaneggiate: la famiglia prima di tutto. Rimase lì, come un punto fermo ad aspettare la moglie e i figli, sua ragion d’essere.

Attorno, la comunità partecipava come si fa nei paesi, o nei ritagli di città, con sguardo giudicante e ricami pruriginosi, con quell’artificio spassoso e violentissimo che è lo stigma, il plebeo pettegolezzo.

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Mimino Pendinelli oggi. Foto di Graziella Lupo Pendinelli

Il tempo poi ha fatto il suo movimento, imperterrito e rigoroso, è passato addosso, ha calpestato, ha accarezzato, sottratto e modificato. E dopo più di vent’anni il viaggio di una storia individuale, malgrado la nostra idiota incredulità, è diventato evidenza di imprescindibili intrecci di relazioni.

Oggi l’uomo Mimino non ha più fattezze umane. Galleggia da solo in quella casa dono del padre a lui all’età di 11 anni, la stessa casa che fu riferimento per i nuovi residenti di spazi periferici del paese in crescita. Una casa che, in quella via, è stata rifugio per le giovani famiglie degli anni ’70, con i tanti figli da accudire e pochi soldi in tasca; una casa di contadini avvezza alla pratica dell’accoglienza, come una famiglia allargata e all’esercizio del dono, come antiche tribù primitive. La stessa casa che aveva ospitato i cadaveri dei suoi genitori e il cadavere non riconosciuto del suo legame matrimoniale, corroso da bigattini di varia provenienza.

Le condizioni di salute di Mimino sono degenerate e i fantasmi di quell’aborto di famiglia non hanno prestato cura, persi anch’essi su orizzonti di deserti e co-interesse. La moglie, mai diventata ex, come un pendolo fuori tempo, frequentava il marito in intimità e in coerenza con la morale di naftalina cattolica: per anni gli portava scatole con cibo già scaduto, spazzava il marciapiede antistante l’alcova a visibilità pubblica e tornava dal di lei padre. Lui, come incastrato anticipatamente in una bara polverosa e affollata da idee ricevute ed ereditate, impediva ai fratelli e sorelle, anche alla sorella Nina, di offrirgli da mangiare, di essergli vicino; non poteva accettarlo perché lui aveva la moglie.

Per anni… da solo e sempre più isolato. E la solitudine diviene malattia che urla nel corpo; il vuoto di relazione si incarna, come un tumore dalle molte facce, nei movimenti, nel respiro, negli organi, nell’esserci.

Nel suo solito mese ostile, settembre, del 2010 stavolta, ha ricevuto un TSO, un trasferimento sanitario obbligatorio; il suo corpo urlava “Aiuto!” attorno, alla moglie, ai figli, ai fratelli e alle sorelle, al vicinato al paese… allo Stato, che già gli aveva congelato il dolore col rigore delle armi. Fu trattenuto in ospedale per un mese… aveva la barba lunga, sporco di una sporcizia senza tempo, le unghie lunghe, i pensieri attorcigliati, il cuore appeso ad attese vane e il corpo rannicchiato. Con il TSO si accendono, secondo la legge scritta almeno, delle prassi che coinvolgono la comunità ospitante il ricoverato. Il Comune di residenza è coinvolto, l’ufficio dei Servizi Sociali è coinvolto, la comunità è interessata. I fratelli e le sorelle hanno dovuto infrangere le cancellate di ferree idee condivise: quel rispetto per la volontà del fratello, che anteponeva una moglie inesistente, doveva cedere il posto alla cura per lui, anche per la sua mente malata. D’improvviso tutto era rimescolato e quella verità che si continua a negare, la relazione unica condizione umana, si mostrava con le criticità e la ruggine accatastata di un tempo lungo e violento.

Il corpo malato portava l’evidenza della verità vissuta e mostrava, senza pudore ormai, assenze, irresponsabilità, perversioni, idiozie- Il corpo racconta, malgrado noi, malgrado le censure, malgrado il potere. Dopo il TSO i Servizi Sociali, pressati dai parenti, hanno preso contatto con moglie e figli ed hanno avuto accesso alla casa, teatro di 20 anni di solitudine. Totale assenza di igiene, cibi avariati, sporcizia e assenza di servizi minimi; i Servizi Sociali hanno sollecitato la moglie e i figli alla loro responsabilità verso il congiunto e i parenti a loro volta hanno preteso dai Servizi Sociali fattivi interventi di igienizzazione e di supporto, a che potessero anche loro partecipare alle cure di Mimino senza conflitti.

Responsabilità, parola scabrosa oramai– Dal 2010 al 2013 cosa è cambiato? Lo stato di salute di Mimino è peggiorato. Moglie e figli hanno confermato l’agire dei vent’anni precedenti, ovviamente. I parenti impediti e tenuti lontani. E i Servizi Sociali? I servizi sociali hanno verificato nel 2010 lo stato abitativo e poi, il niente. I parenti però hanno inviato sempre più numerose comunicazioni e incessanti richieste di intervento, senza ricevere alcuna risposta.

Nel luglio scorso Mimino non riconosceva più la sua casa, ha vagato attorno per tutta la notte e il vicinato si è trovato trascinato in un teatro di dolore da cui si è ritenuto sempre assolto, salvo che per le pratiche giocose di corti pettegolezzi. Il 25 luglio, con il solleone a trapanargli il corpo ripiegato in un angolo retto, correva per la strada privo di orientamento, come un bambino smarrito; e si teneva con le mani le brache bagnate di sudore e della pipì che non sa più gestire.

Così Mimino, con la sua barba lunga e le unghie lunghe e sporche, senza memoria di doccia e di igiene, stretto da un regresso cognitivo, in un ruolo senza interprete di barbone e di demente per fuggire da sé, da una storia, dalla solitudine, dall’assenza.

I Servizi Sociali sono stati “disturbati” da lunghe lettere e richieste di intervento, da colloqui e da sollecitazioni, così i Carabinieri, i Vigili urbani, poi il Sindaco e l’Assessore ai Servizi Sociali, il Medico curante, tutte le Istituzioni preposte. Nessuna risposta. I Servizi Sociali, appollaiati dietro le scrivanie, ripetevano che la moglie era diventata ex dall’aprile scorso (con procedura oscura!) e non aveva alcuna responsabilità verso l’ex-marito. Si sa, anche la peluria cattolica trova il suo calcolato interesse a radersi, così anche il divorzio talvolta viene premiato con la santa eucaristia e cicliche assoluzioni.

Ancora i Servizi Sociali ripetevano… i figli: uno con problemi di salute non può accudire il padre e l’altro figlio… non aveva amore per il padre! Considerazione e argomentazione dal valore scientifico sottile e sofisticato, da far ritenere i soldi dello stato distribuiti a stipendi dei servizi sociali, i migliori soldi spesi. L’amore!

I Servizi Sociali si sono occupati di verificare l’assenza di amore in un figlio verso il padre…in più la legge non può costringere i figli ad accudire i genitori…ma relativamente alle loro competenze e responsabilità, nessun intervento è stato messo in atto.

Pare che si potesse attuare la cosiddetta “Assistenza domiciliare”: organizzare la presenza periodica di un operatore in casa di Mimino per garantire igiene minima. I Servizi Sociali si sono rivolti alla ex-moglie per chiedere la sua presenza a fianco dell’operatore. Altra punta di arguzia intellettuale e di spiccata responsabilità professionale! La ex-moglie si è rifiutata, ovvio! Il figlio non è stato interessato. I parenti ignorati. Archiviata l’assistenza domiciliare. Intanto i Servizi Sociali erano dettagliatamente e costantemente informati sullo stato di salute di Mimino, sulla sporcizia e il pericolo in cui versa, sulla impossibilità di avvicinarsi indotta dal figlio ai parenti; informati che in casa di Mimino circolano topi della famiglia dei ratti e sollecitato intervento di bonifica, hanno risposto: “C’è di peggio!”.

I Servizi Sociali hanno parametri relativi all’igiene e agli animali domestici…tutti da scoprire; come relativamente alla Responsabilità- La seconda procedura messa in atto dai Servizi Sociali in accordo con il figlio e con quella strana ex-moglie presente a fasi alterne, è stata quella di ricoverare Mimino in una struttura, in una “Casa di cura”. Usiamo le parole nel loro potere di manipolazione oramai e ci si sottrae ad ogni analisi critica. Hanno preso Mimino, con sotterfugio e nel totale nascondimento dai parenti, e lo hanno accompagnato in una struttura. Lui si è rifiutato di entrare. La sua memoria emozionale è viva, nitida, sconcertante. Per la struttura il Comune avrebbe dovuto partecipare ad integrare la pensione di invalidità percepita da Mimino che è pari a 288 €.

Eppure Mimino possiede la sua casa, possiede dei terreni… perché il Comune dovrebbe farsi carico di una spesa a vantaggio di un soggetto che possiede le risorse per autofinanziare la sua cura in condizioni di oggettivo benessere? Ma Mimino si è rifiutato di entrare…

Intanto, riceve il cibo dalla sorella Nina da lui riconosciuta nel legame antico e verso la quale mostra una tenerezza e un’attenzione disarmanti e a lei nomina il suo stato con la parola “malinconia”. Ma Nina non può da sola e non può con l’altro fratello più anziano… alla Istituzioni chiedevano sinergia, che pazzi, chiedevano relazione!

Mimino continua a pisciarsi addosso, ad avere la barba lunga e la pelle mangiata dallo sporco, ad aspettare i figli, a non saper distinguere ciò che lo uccide dall’amore.

Infine, è giunta una risposta dalle Istituzioni, solo dai Servizi Sociali il resto, se legge, è solo in copia conoscenza con più ridotta responsabilità. La lettera recita una cronaca estranea a qualsiasi contatto con la realtà, narrazione di spettatori scrivani, “quadri” nella pianta organica di un’Istituzione e alieni a responsabilità di relazione umana e professionale.

I Servizi Sociali hanno decretato che “è intendimento di questo Servizio avviare apposita segnalazione alla Procura della Repubblica per l’apertura d’Ufficio di un procedimento finalizzato ad ottenere dal Tribunale Civile l’interdizione o l’inabilitazione dell’anziano, con nomina di un tutore o curatore speciale che si occupi di lui”.

Così Mimino sarà ricoverato forzatamente, sottratto definitivamente a se stesso, recluso in una struttura nella vistosa accelerazione del suo definitivo annientamento. Chissà se, nel trasporto, avrà ancora voce e memoria, respiro per urlare nuovamente: Cosimo Pendinelli, nato il 6/8/1953.

Tutto ciò accade nel comune di Salice Salentino.

 

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